Oltre il cancello: un viaggio tra silenzio, polvere e geometrie ipnotiche
Da qualche parte, tra la nebbia invernale del Nord Italia, attraversando un lungo viale, superato un vecchio cancello e addentrandosi in alcuni annessi agricoli ridotti a rifugi di fortuna, è possibile accedere a una vecchia dimora, tanto bella quanto oscura e misteriosa. Nei cascinali troviamo materassi logori, confezioni di cibo, bottiglie di birra, resti di vita vissuta in clandestinità: segni evidenti di occupazioni abusive, ormai lontane ma ancora presenti. Nonostante ciò vi sono segni di tentati recuperi e ristrutturazioni.
La villa, risalente al XVII secolo, sorge nascosta tra gli alberi e il silenzio, protetta dal tempo e dalla dimenticanza, in un grande parco adorno di statute, torrette e fontane. La giornata è perfetta, un po’ grigia, nebbiosa, alquanto fredda e a tratti piovosa, non c’è anima viva intorno e la nostra presenza passa del tutto inosservata. Giunti ai piedi della villa, ci separano da lei un cancello chiuso e una lunga grata che ci relegano nel cortile interno, senza apparente possibilità, se non quella di tornare indietro… Ma toccando casualmente la recinzione, mi accorgo che una porzione di essa si apre, è in realtà una finta grata, un cancelletto occulto perfettamente mimetizzato, che da sopra il muretto apre un varco verso il parco e verso l’altro lato della villa.
La sala dell’ariete
La stanza si svela come un sipario pesante su un’ambientazione estranea e assoggettante. Le pareti, ricoperte da sfilacciate stoffe rosso damascato alte fino al soffitto in legno a cassettoni, lacere ma ancora vibranti di un’eleganza inquieta, circondano un ambiente che ha perso da tempo la propria funzione. Più che una sala sembra una veranda, uno spazio di luce che, almeno in quel preciso momento, ne lasciava filtrare ben poca dalla finestra lontana — più che luce un chiarore, quello dei giorni di pioggia —. Al centro della scena, a terra, la testa di un grosso animale con corna arcuate, ormai ridotto in scheletro, giace immobile — forse un cervide o più probabilmente un bovide, qualcuno suggerisce un grosso capro o un’ariete ma è molto più probabile si tratti di un bufalo domestico, ma il vero mistero resta da dove sia entrato —. Sul fondo della stanza, in posizione orizzontale rispetto al nostro punto di vista, si staglia un massiccio tavolo di legno, che, in quel gioco straniante di luci e ombre, assume le sembianze di un altare. L’impressione è quella di imbattersi nei resti di un cerimoniale passato, in una stanza rituale, ma è solo un’illusoria associazione della nostra mente, stimolata da un’atmosfera cupa e teatrale. O forse no?
La Stanza degli zig zag: come la Red Room di Twin Peaks
In una delle stanze sulla destra del corridoio, priva di finestre, l’unica luce che filtra è quella di un piccolo lucernario a lunotto posto sopra al portone, la stanza è spoglia, era evidentemente un’ingresso, ma il portone è completamente ricoperto di fitte ragnatele — deve essere rimasto chiuso per anni —. L’impatto visivo è molto forte. Le pareti sono un continuo, implacabile motivo a zig zag (chevron), che parte dal pavimento e sale orizzontalmente fino al soffitto. Le linee rosse e rosa sbiadito — forse un indistinguibile color crema confuso dalla penombra —, si alternano senza interruzione. L’effetto è inquietante, quasi fastidioso: la durezza di quei segmenti spigolosi sembra penetrare nella mente, un’imposizione visiva che non lascia respiro, spiazza e disorienta. Una geometria quasi tagliente, esasperata, che cattura e trattiene.
Al centro della stanza, una motoretta elettrica giace in silenzio nella polvere, una di quelle carrozzelle a motore utilizzate dalle persone anziane per spostarsi. Ci è facile intuire che l’ultimo abitante sia stata una persona anziana, probabilmente sola e con problemi di deambulazione, la quale si avvaleva di questo mezzo per spostarsi da una stanza all’altra attraverso i lunghi corridoi. Ma al di là di ogni intuizione è molto inquietante trovarcela di fronte in una stanza in penombra, dove bizzarri decori a zig zag ci riportano con la mente alla Loggia Nera (o Red Room) de I Segreti di Twin Peaks. Ci rincuora pensare che fosse stata soltanto una stanza di passaggio, un ingresso, non destinato a lunghe permanenze, se non il tempo di appendere l’abito e di qualche convenevole.



Girandole
Anche le altre stanze sono abbastanza spoglie, ma il corridoio che le divide ci ammalia come un incantesimo. Un’opera di geometrie e ossessioni: le pareti sono decorate da motivi a girandola rossa, stilizzazioni di “soli raggianti” che si moltiplicano in forme più piccole e simmetriche lungo tutte le superfici. Alla fine del corridoio, una volta più alta e ampia accoglie la scala che conduce ai piani superiori e si apre come una sorpresa sulle nostre teste: al centro di essa, una girandola più grande domina lo spazio, che pare rappresentare un sole stilizzato da cui si propagano i raggi della vita, in una costellazione di piccole geometrie, di schemi ripetuti in sequenze, come un mandala. L’effetto è ipnotico, caleidoscopico, pare di essere entrati nella mente matematica di un artista ossessivo. I decori ci ricordano alcune delle volte del Castello Sforzesco di Milano, in particolare del loggiato nel Cortile della Rocchetta, le stesse sequenze, gli stessi motivi geometrici, gli stessi zig-zag, gli stessi colori, tanto da sembrare opera della stessa mano. Sulla volta è possibile leggere in numeri romani l’anno 1914, probabilmente indica la data di un successivo restauro della struttura originale. I decori risalgono indubbiamente a quell’epoca.
L’armonia degli opposti: fusione di stili in una residenza storica
I motivi a zig zag, l’anno 1914 impresso sulla volta, le girandole, suggeriscono uno stile eclettico che rielabora motivi del passato storico. L’influenza del neorinascimento e del liberty è evidente, con la loro preferenza per decorazioni stilizzate e simboliste. I soli radianti che appaiono sulle pareti e nella volta del corridoio, stilizzazioni solari o floreali, sono molto simili a quelle che si trovano nelle architetture liberty dei contesti più provinciali e meno monumentali, dove lo stile si fondeva con tradizioni locali o motivi storici, quel liberty che amava le forme organiche, i moduli ripetuti, ma anche di certe carte da parati e stencil neorinascimentali. Il motivo decorativo “solare” o “radiale” può anche ricordare le “rosette” medievali o del rinascimento, pur rifacendosi a temi più antichi, ma con una sensibilità più moderna, con un richiamo simbolico e misterioso.
La data 1914 e il modo in cui è incorniciata con motivi a nastro fluenti — sinuosi e simmetrici — è molto significativa: questi nastri sono tipici del liberty floreale, anche se qui appaiono semplificati in chiave quasi grafica o astratta, il che li avvicina a una fase tardo-liberty o primo déco. L’uso della data in numeri romani, incastonata in un fregio quasi celebrativo, è tipico delle architetture eclettiche, dove si omaggiava un evento, la costruzione della dimora o una ristrutturazione della stessa. La ritroviamo ad esempio nel Casinò abbandonato di Costanza (sul quale abbiamo realizzato un bell’articolo), un simbolo del liberty, all’inteno del quale la data di inaugurazione (1910), è incorniciata come una celebrazione in modo del tutto analogo.
I rilievi decorativi ai lati dell’arco sembrano motivi vegetali, forse antropomorfi, fortemente neorinascimentali. Il corrimano in metallo lavorato della scalinata principale, la scelta dei materiali, indicano una casa signorile ma non aristocratica, coerente con l’epoca. In sintesi, le decorazioni mostrano uno stile eclettico storicista, con forti richiami al liberty, al neorinascimento, con un’impronta personale o artigianale, tipica delle ville di campagna o dimore borghesi di inizio Novecento. Questa combinazione rende la villa particolarmente affascinante perché racconta un gusto ibrido, tra tradizione decorativa e modernità simbolica.



La cappella privata
Una breve nota la merita la cappella privata, piuttosto atipica e particolare, un po’ fuori contesto, probabilmente ristrutturata in epoca più recente. Si tratta di una grande sala spoglia ricavata nel seminterrato, dove è presente un unico altare, piuttosto semplice, formato da una lastra in pietra marmorea che poggia sopra una colonna a capitello centrale che funge da base. È molto probabile che un tempo questa sala fosse una cantina, poi adibita a loggia o luogo di culto privato. La struttura del soffitto richiama lo stile romanico e presenta delle volte a crociera con archi a tutto sesto sorretti da pilastri massicci ma deteriorati alla base dall’umidità. Il muro dietro all’altare è realizzato in mattoni rossi, che danno all’ambiente un aspetto rustico ma regale. Sul retro dell’altare vi è un’alzata in marmo pensata per il celebrante della funzione. Il pavimento antistante è in piastrelle che accolgono due grandi tappeti sui quali, presumibilmente, un tempo sedevano i partecipanti alla funzione religiosa.
Residue memorie. Stanze vuote, ma non silenziose
In fondo al corridoio del piano terra, una stanza si apre con discrezione: al centro, silenzioso e maestoso, un vecchio camino con una cappa slanciata e affusolata sembra ancora custodire il calore di un tempo lontano.
In cucina, tra resti sparsi e stoviglie dimenticate, troviamo un vecchio tavolino in legno molto semplice. Sopra, un’agenda con i lembi delle pagine strappate, datata 1991, aperta su appunti scritti a mano, tracce ordinarie di una quotidianità ormai svanita. I segni lasciati da chi visse qui affiorano così, come briciole di storie personali che resistono al silenzio. Verosimilmente, la data dell’agenda potrebbe coincidere con la data dell’abbandono.
Saliamo poi al piano superiore, dove un altro lungo corridoio ci accoglie e ci guida alla scoperta di altre stanze, richiamando gli stessi motivi a girandola del piano appena lasciato. A metà del corridoio, una piccola mensola da termosifone ospita una fotografia in bianco e nero, sbiadita dal tempo e coperta da una patina di polvere e ragnatele. È il volto di un’anziana signora, forse l’ultima custode di questo sogno. Il suo sguardo, fermo e distante, sembra accompagnarci nel silenzio e guidarci tra le ombre della sua dimora.
Dietro una porta socchiusa, si nasconde un salone da pranzo che conserva ancora tutta la sua grazia decadente. Le pareti, ornate da una carta da parati floreale ormai scollata in più punti, incorniciano un tavolino su cui riposano alcune suppellettili. Il soffitto, magnifico, è decorato da geometrie di stucchi semplici ma raffinati, motivi floreali e al centro, le eleganti braccia in ottone di un lampadario sorreggono cilindri in cristallo lavorato. Sopra di esso, un motivo concentrico di fregi dorati e piccoli stucchi floreali gli fa da cornice.
Ma è sotto uno dei lembi distaccati della carta da parati che emerge forse il segno più enigmatico: una scritta scolorita, ma ben marcata, dal grosso tratto, forse tracciata a carbone o grafite direttamente sulla parete originale. È difficile decifrarla, ma la grafia e la collocazione richiamano inequivocabilmente quelle ritrovate in molti altri luoghi utilizzati come rifugi di fortuna: vecchie cantine, soffitte di antiche ville o conventi. In più di un caso, iscrizioni simili si sono rivelate autentiche testimonianze lasciate dai partigiani durante la guerra, quando trovavano accoglienza e riparo proprio in quegli spazi nascosti, ospitati da generosi benefattori durante i lunghi giorni della Resistenza.
Una villa che non si visita, si attraversa. In posti come questo ogni stanza è una soglia, un confine da varcare verso il regno del passato, dove ogni dettaglio, è una possibilità di memoria.
“È nella decadenza degli edifici, non nei loro ornamenti, che è scritta la loro storia. […] Ogni mano umana che si è appoggiata a un muro vi lascia sopra qualcosa della propria presenza.”
(John Ruskin, The Seven Lamps of Architecture, 1849)
Galleria di Simone
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